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Obiezione di coscienza, un falso diritto.

Obiezione di coscienza, un falso diritto.

Valentina Milluzzo aveva 32 anni ed era alla 19esima settimana di gestazione di due gemelli. La sua vita si è bruscamente interrotta, tra atroci sofferenze, assieme a quella dei suoi futuri figli dopo 17 giorni di ricovero all’ospedale Cannizzaro di Catania.

Una vicenda tragica le cui dinamiche sono ancora oscure, viste le discordanti posizioni della famiglia e della struttura sanitaria.

La famiglia accusa il medico che avrebbe dovuto assistere Valentina di averla lasciata morire perché, nonostante dolori fisici devastanti e protrattisi per ore, e nonostante i segnali di sofferenza fetale, si sarebbe rifiutato di intervenire affermando: “finché c’è battito non posso intervenire perché sono obiettore di coscienza. Siamo nelle mani del Signore”.

La struttura rifiuta questa versione dei fatti, premurandosi di ricordare l’impossibilità di appellarsi all’obiezione di coscienza in un simile caso e affermando che, dopo il primo aborto spontaneo, l’induzione del secondo aborto tramite somministrazione di ossitocina è la dimostrazione dell’infondatezza dell’accusa della famiglia.

Saranno gli ispettori inviati dal Ministero della Salute e l’esito dell’autopsia a chiarire, forse, almeno alcuni aspetti di questa dolorosa vicenda e quali responsabilità siano imputabili al personale sanitario.

Al di là di come siano andati realmente i fatti, ammesso che si riesca a fare luce sulla catena causale che ha portato alla prematura scomparsa della giovane donna, l’accusa mossa dalla famiglia impone una riflessione generale sull’istituto dell’obiezione di coscienza e su come venga esercitata dal nostro personale sanitario.

La regolamentazione del suo esercizio è specificata all’interno della legge 194 del 1978, precisamente dall’articolo 9 di cui esponiamo gli aspetti più importanti:

  1. Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’ammissione all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) e all’intervento se solleva obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.
  1. L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento.
  1. Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti ad assicurare l’espletamento delle procedure e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dalla legge. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale.
  1. L’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.

Sebbene l’ambito in cui si possa esercitare l’obiezione di coscienza sia ben delineato dall’articolo 9, assistiamo molto spesso ad una sua indebita estensione in contesti non previsti e non legalmente giustificabili.

È frequente che il personale medico si rifiuti di prestare assistenza a donne che hanno deciso di intraprendere una IVG anche quando non è direttamente connessa alla pratica, ad esempio per le ecografie di controllo, in contesti, dunque, che non rientrano in quelli che ammettono l’obiezione di coscienza (punto 2).

È diffusa, e purtroppo spesso comunemente accettata, la pretesa di poter fare obiezione di coscienza sulla prescrizione e la somministrazione di contraccettivi d’emergenza, che, appartenendo alla categoria farmacologica dei contraccettivi, nulla hanno a che vedere con un’interruzione volontaria di gravidanza e, dunque, col merito della 194. L’ulteriore aggravante di questo comportamento è legato al fatto che l’efficacia dei contraccettivi d’emergenza è strettamente connessa alla tempestività dell’assunzione che può essere ritardata a causa dell’indebito rifiuto del medico. Sebbene recentemente la pillola del giorno dopo e quella dei cinque giorni dopo sia stata inserita tra i farmaci senza obbligo di prescrizione (SOP) per chi ha compiuto 18 anni d’età, resta l’obbligo per le ragazze minorenni.

La deliberata distorsione dell’articolo 9 da parte di medici e anche di farmacisti , e l’ignoranza del suo contenuto da parte di chi subisce quello che si configura come un vero e proprio abuso, fanno sì che molto spesso questi comportamenti vengano attuati nella più totale impunità, sulla base di una errata presunzione di legittimità.

Fece scalpore qualche anno fa (quando era ancora necessaria la prescrizione per le donne maggiorenni) il rifiuto del medico della Camera di prescrivere la pillola del giorno dopo ad alcune parlamentari, in quanto obiettore. L’aspetto più grave, al di là dell’abuso compiuto dal medico, fu che anche coloro che criticarono duramente la vicenda diedero per scontato il diritto di appellarsi all’obiezione di coscienza per la somministrazione di un contraccettivo, limitandosi semplicemente a reclamare la presenza di medici non obiettori che potessero rispondere alle esigenze delle parlamentari.

Non sappiamo se il medico accusato dalla famiglia di Valentina Milluzzo abbia veramente rivendicato per sé l’esercizio dell’obiezione di coscienza, ma di sicuro la tendenza ad abusare dell’articolo 9, in contesti ad esso estranei, rende questa accusa assolutamente, e tristemente, plausibile.

L’articolo 9 viene spesso travisato e diventa l’alibi di comportamenti moralmente discutibili e legalmente inaccettabili che causano una lesione manifesta del diritto alla salute delle donne.

Se poi vogliamo allargare la nostra riflessione all’articolo 9 in sé, oltre che al suo esercizio abusivo, è proprio vero che questo articolo sia l’importante garanzia della tutela di un diritto irrinunciabile?

Quando la 194 fu concepita, la legalizzazione dell’aborto portò ad un cambiamento sostanziale dei compiti e delle responsabilità dei ginecologi all’interno del Sistema Sanitario Nazionale. L’articolo 9 aveva dunque una sua utilità nel tutelare quanti, avendo deciso di intraprendere quella professione PRIMA DELLA LEGALIZZAZIONE DELL’ABORTO, si trovassero all’improvviso costretti a compiere una pratica che non avevano minimamente previsto di effettuare e che avrebbe potuto ripugnare la loro coscienza.

Dal 1978 sono passati 38 anni e diverse generazioni di medici. Chiunque decide di specializzarsi in ginecologia è consapevole di trovarsi in un Paese in cui l’aborto è legale e deve poter essere accessibile alle donne che ne facciano richiesta.

Sottrarsi ad un compito previsto da una professione liberamente scelta non è un diritto morale ma un privilegio difficilmente giustificabile.

 Chiunque abbia delle remore morali a compiere una IVG e ad assistere le donne in questo percorso, non ha che da scegliere un’altra professione che non lo metta nelle condizioni di venire meno, per le proprie convinzioni morali, a ciò che dovrebbe essere il dovere primario di un ginecologo: assistere le proprie pazienti.

Il numero di obiettori negli ospedali, infatti, è così alto da compromettere inevitabilmente il diritto delle donne di poter essere assistite nella loro scelta, solo teoricamente garantita per legge. Si passa da percentuali del 70% a punte altissime del 90% e del 100% di medici (e altro personale medico) obiettori. La necessità di intraprendere le procedure di IVG in tempi precisi e la mancata possibilità di veder rispettati questi tempi a causa della carenza di personale non obiettore, costringe spesso le donne a dei veri e propri tour transregionali per trovare una struttura che possa accogliere la loro richiesta.

L’articolo 9, dunque, compromette la praticabilità stessa dell’interruzione volontaria di gravidanza, arrivando dunque al paradosso di negare, nei fatti, ciò per cui la legge nella sua interezza era stata concepita.

Le donne che vogliono sottoporsi ad IVG, oltre a dover affrontare innumerevoli difficoltà logistiche che talvolta ne compromettono l’attuazione, sono sottoposte alle pressioni psicologiche (e spesso a veri e propri maltrattamenti) del personale medico obiettore e al feroce giudizio morale di chiunque si senta in diritto di esprimersi su una scelta individuale che dovrebbe essere tutelata, oltre che garantita per legge.

È di oggi la notizia di un volantino, consegnato nella ASL di Bari dopo un intervento di IVG, che ha la pretesa di dare indicazioni morali alle pazienti attraverso raccomandazioni che trascendono l’ambito medico e sconfinano in un campo in cui la ASL non ha alcuna legittimità di intervenire: quello delle scelte individuali e dei vissuti personali.

Ad essere messo in discussione dalla pratica dell’obiezione di coscienza non è “soltanto” l’aborto ma il diritto stesso alla salute delle donne che ne fanno richiesta.

Ostinarsi a equiparare il “diritto dei medici” -di rifiutare una pratica che li ripugna- al diritto delle donne di essere assistite e tutelate nelle loro scelte riproduttive (e non), significa ignorare la differente natura di questi due “diritti”.

Il primo è il presunto diritto di chi, avendo liberamente deciso la propria professione nella piena consapevolezza di vivere in un Paese in cui questa prevede anche le procedure di IVG, rivendica per sé la possibilità di rinnegare parte dei compiti previsti, appellandosi a una coscienza che avrebbe potuto ascoltare prima di scegliere la propria specializzazione.

Il secondo è il reale e inalienabile diritto alla salute, peraltro costituzionalmente garantito, di chi si vede negata la possibilità di mettere in atto una scelta che spesso non prevede alternative (a differenza della scelta della propria professione), e si trova a subire vere e proprie violenze fisiche e psicologiche e a correre dei rischi personali che hanno spesso delle conseguenze tragiche difficilmente conciliabili con uno Stato che voglia definirsi civile oltre che laico.

 

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