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L’insostenibile lusso dell’obiezione di coscienza

L’insostenibile lusso dell’obiezione di coscienza

Ha fatto scalpore la notizia che nella regione Lazio sia stato indetto un concorso riservato ai soli medici non obiettori, finalizzato a garantire il servizio di interruzione volontaria di gravidanza. I due vincitori del concorso sono stati assunti al San Camillo di Roma con un contratto a tempo indeterminato e il vincolo di non potersi sottrarre all’esecuzione di IVG, finalità per cui sono stati assunti.

Mentre il presidente della Regione Lazio Zingaretti difende questa decisione come una forma innovativa di tutela della legge 194, il mondo politico si divide tra chi parla di azione legittima e degna di plauso e chi parla di azione illiberale e immorale.

La stessa Ministra della Salute Beatrice Lorenzin critica negativamente il concorso ad hoc, sottolineando che la 194 non prevede in alcun modo la possibilità di fare una selezione mirata in questo senso e che, qualora ad una struttura sanitaria manchi personale che possa esercitare un servizio specifico, deve richiedere alla regione la mobilità del personale da altra struttura.

La Ministra Lorenzin, nel suo tentativo di difendere una legge che ormai ha drammaticamente mostrato la totale incapacità di garantire alle donne il diritto alla salute, dimentica di citare i dati sull’obiezione di coscienza che arrivano spesso a picchi così elevati (in alcune regioni si supera il 90%) da rendere impraticabile la mobilità all’interno della regione e costringere le donne a viaggi della speranza da una regione ad un’altra per poter essere assistite. I (pochi) medici non obiettori, per far fronte alla richiesta di IVG, sono costretti a praticarli a ritmi serrati, riducendo la loro professione quasi a questa sola pratica (nel Lazio si arriva a picchi di 9 interventi a settimana).

Il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario, previsto dal non più legittimabile articolo 9, compromette la praticabilità stessa dell’interruzione volontaria di gravidanza, arrivando dunque al paradosso di negare, nei fatti, ciò che la legge, nella sua interezza, intendeva legalizzare e regolamentare.

Quando la 194 venne introdotta, l’articolo 9 aveva una sua utilità nel tutelare quanti, avendo deciso di intraprendere quella professione PRIMA DELLA LEGALIZZAZIONE DELL’ABORTO, si fossero trovati costretti all’improvviso a compiere una pratica che non avevano minimamente previsto di effettuare e che avrebbe potuto ripugnare la loro coscienza. Dal 1978 sono passati 39 anni e svariate generazioni di medici. Chiunque decide di specializzarsi in ginecologia è consapevole di trovarsi in un Paese in cui l’aborto è legale e deve poter essere accessibile alle donne che ne facciano richiesta.

Sebbene i detrattori dell’iniziativa della regione Lazio ribadiscano che l’obiezione di coscienza sia un diritto che non può essere messo in discussione, sottrarsi ad un compito previsto da una professione liberamente scelta più che un diritto sembra essere un privilegio difficilmente giustificabile. Ostinarsi a equiparare il “diritto dei medici” -di rifiutare una pratica che li ripugna- al diritto delle donne di essere assistite e tutelate nelle loro scelte riproduttive (e non), significa ignorare la differente natura di questi due “diritti”.

Il primo è il presunto diritto di chi, avendo liberamente deciso la propria professione nella piena consapevolezza di vivere in un Paese in cui questa prevede anche le procedure di IVG, rivendica per sé la possibilità di rinnegare parte dei compiti previsti, scomodando una coscienza che avrebbe potuto ascoltare prima di scegliere la propria specializzazione. Il secondo è il reale e inalienabile diritto alla salute, peraltro costituzionalmente garantito, di chi si vede negata la possibilità di mettere in atto una scelta che spesso non prevede alternative (a differenza della scelta della propria professione), e si trova a subire vere e proprie violenze fisiche e psicologiche e a correre dei rischi personali che hanno spesso delle conseguenze tragiche difficilmente conciliabili con uno Stato che voglia definirsi civile oltre che laico.

L’iniziativa della regione Lazio, benchè l’intenzione sia degna di plauso, è solo una “toppa” a una grave lacuna nella tutela del diritto alla salute, e a una legge ormai inadeguata che ha al suo interno i motivi del suo stesso fallimento.

Istituire concorsi ad hoc finalizzati a trovare medici per la sola pratica della IVG, se da una parte consente di alleviare le conseguenze negative dell’obiezione di coscienza degli altri medici, dall’altra rischia di garantire la sopravvivenza di questo privilegio inaccettabile a scapito della vita professione di quei pochi che, dovendo farsi carico di assolvere un compito che dovrebbe essere diviso tra tutti, andranno inevitabilmente incontro ad un impoverimento delle proprie esperienze professionali trovandosi a eseguire prevalentemente IVG.

Solo l’abolizione dell’articolo 9, oltre a garantire finalmente una piena assistenza alle donne nelle loro scelte personali, garantirebbe la possibilità a quanti vogliano diventare ginecologi assolvendo tutti i compiti che questa professione prevede, di vivere la propria vita professionale nella sua pienezza senza doversi concentrare su quell’unica attività che troppi si prendono il lusso – a scapito dei diritti altrui- di non adempiere.

 

 

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