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Decidere per gli altri nella relazione genitori-figli. Analisi di un caso.

Decidere per gli altri nella relazione genitori-figli. Analisi di un caso.

E’ ormai consueto attribuire al ruolo di genitore[1] una grande responsabilità: è suo, infatti, il compito complesso e delicato di educare una persona in fieri e prepararla ad inserirsi nella società. Non è difficile intuire le implicazioni morali che una simile responsabilità comporta.

Il genitore si trova spesso a compiere scelte importanti in vece del figlio, considerato troppo piccolo per prenderle autonomamente, nella consapevolezza che queste avranno conseguenze più o meno importanti nella sua vita futura. Tra le varie decisioni che spettano al genitore vi sono quelle relative alla salute.

Sino a che punto i genitori possono spingersi nelle scelte mediche che riguardano i propri figli?E con quali motivazioni?

La rilevanza bioetica di questi interrogativi e la difficoltà di trovare una soluzione emergono nel momento in cui si analizzano i casi reali.

A questo proposito vorremmo soffermarci su una questione che fu oggetto di aspre polemiche nel marzo 2008. Prese spunto da alcuni articoli sensazionalistici che commentavano le presunte dichiarazioni di un chirurgo estetico (e di sua moglie) in merito alla possibilità di intervenire chirurgicamente sul volto della propria figlia affetta da Sindrome di Down[2]. Sebbene il caso specifico, sulla base delle smentite degli stessi genitori, si sia rivelato una montatura giornalistica[3], le polemiche hanno riportato alla memoria un caso del 1998, questa volta non smentito, di una bambina di 5 anni, affetta da Sindrome di Down, sottoposta a tre interventi consecutivi al volto[4].

Si è così posto il problema della liceità di intervenire sui lineamenti dei bambini affetti dalla ben nota patologia. Sebbene l’opinione pubblica abbia risolto la questione bollando il caso come il capriccio di genitori insensibili e incapaci di accettare la malattia della figlia, prendere una posizione non è poi così semplice e, soprattutto, non può prescindere dall’analisi della tipologia dei tre interventi effettuati:

  • ridimensionamento della lingua, la cui crescita abnorme comporta problemi di carattere respiratorio ed ostacola la corretta articolazione delle parole
  • correzione delle orecchie “a sventola”
  • intervento sulle palpebre

Degli interventi in questione almeno il primo, di carattere eminentemente terapeutico, dal punto di vista dei genitori[5], pare una scelta legittima e difficilmente criticabile dal momento che sua finalità è il miglioramento delle funzionalità respiratorie e vocali del paziente.

Gli altri due sembrano essere invece di carattere estetico e sono quelli su cui i giudizi di gratuità degli interventi e di inadeguatezza dei genitori nell’ accettare la diversità sembrerebbero avere più ragion d’essere. Ad uno sguardo più attento queste posizioni, legittime qualora frutto di un’argomentazione razionale, si rivelano spesso assunte sull’onda del sentimento e, sorprendentemente, originate dal medesimo errore che rimproverano ai genitori, ovvero la discriminazione.

La stigmatizzazione dei due interventi “estetici” infatti, nei vari articoli, non è giustificata tanto dalla loro criticabilità in sè, quanto dalla finalità che ad essi viene attribuita, ossia cancellare i “tratti caratteristici” della Sindrome di Down.

Numerosi interventi di chirurgia estetica correttiva vengono praticati su bambini ancora in tenera età per correggere piccole dismorfie che, sebbene non ostacolino funzionalità vitali, possono rendere la vita di chi ne è portatore più difficile. Si pensi ad esempio alle forme più lievi di labbro leporino: sebbene si possa vivere anche con un taglio sul labbro, il non averlo mette al riparo da possibili disagi psicologici e dalle difficoltà di inserimento che una simile “diversità” può comportare.

La correzione di piccoli inestetismi è quindi una pratica medica comunemente accettata, e di rado messa in discussione, ricondotta ad un’idea di salute che oltre al piano fisico si preoccupi di possibili disagi psicologici. Pensiamo all’otoplastica: numerosi bambini normodotati vengono sottoposti, per scelta dei genitori, ad un intervento volto a diminuire la sporgenza dei padiglioni auricolari, per evitare che il bambino sia oggetto di scherno o si possa sentire a disagio per il proprio aspetto.

Sembra che il malessere psicologico del bambino per la propria dismorfia e le difficoltà di inserimento nella società siano giustificazioni sufficienti per legittimare queste pratiche su bambini altrimenti sani. Al contrario queste giustificazioni non sembrano altrettanto legittime qualora il “difetto fisico” sia collegato ad un quadro clinico più complesso come nel caso della Sindrome di Down.

Gli interventi estetici correttivi non sembrano essere oggetto di obiezioni di principio ma piuttosto di obiezioni solo ed esclusivamente di merito: non si mette di per sé in discussione la possibilità di un genitore di decidere sul corpo – e sull’aspetto- del proprio figlio (visto e considerato che in caso di bambini normodati è un fatto che viene dato per assodato) ma lo si mette in discussione solo nello specifico caso in cui gli “inestetismi” siano elemento caratteristico di una malattia più complessa. In questo caso al desiderio di evitare al proprio figlio un disagio psicologico e di facilitare l’ingresso in società viene attribuita una sfumatura di intolleranza nei confronti della diversità di cui il bambino affetto da Sindrome di Down è portatore. Come a dire che laddove i figli sono sani questi desideri sono legittimi e indiscutibili (e con essi spesso anche le scelte che ne conseguono, senza ancora una volta soffermarsi sulla legittimità di questo grande potere decisionale) mentre nel caso di un figlio down gli stessi desideri non solo non sono una giustificazione sufficiente ma sono anche da sanzionare perché fortemente discriminatori. Ma non è forse anche questa una forma di discriminazione? Nel processo di accettazione di queste pratiche “correttive” la discriminante sembra proprio l’essere affetti o meno dalla Sindrome di Down. Come a dire che un intervento pacificamente (e forse -a questo punto- acriticamente?) accettato su un bimbo sano, diventa immorale nel caso di un bimbo down, e la fruibilità stessa del servizio normalmente garantito viene messa in discussione. Si corre il rischio di ricadere in un circolo vizioso in cui, nel tentativo di tutelare i bambini down dalle discriminazioni, si giudichino immorali trattamenti medici considerati legittimi e accessibili a tutti tranne che a loro in virtù della loro stessa malattia.

Le questioni morali inerenti alle decisioni che i genitori compiono sul corpo dei figli sono complesse e di non facile soluzione e necessitano di una riflessione che non si limiti solo a giudicare la validità delle motivazioni che spingono un genitore ad una scelta, ma rifletta anche sui criteri di legittimità del suo potere decisionale. In effetti sono due i livelli della riflessione morale in gioco: ad un primo livello (che è quello da noi qui preso in considerazione) di analisi sulla bontà delle scelte effettivamente compiute da parte dei genitori deve accompagnarsi a nostro parere un secondo livello che si concentri sulla legittimità del genitore di poter scegliere in vece del figlio. Nelle discussioni che spesso infiammano l’opinione pubblica è data per acquisita la possibilità di critica alle scelte dei genitori, mentre il fatto in sè che possano gestire completamente le questioni inerenti alla salute dei figli, sino al compimento della maggiore età, viene dato per scontato e giustificato dalla comune concezione di potestà genitoriale. Questa è intesa genericamente come il diritto/dovere (morale ma anche giuridico) dei genitori di prendersi cura del proprio figlio ed assisterlo laddove non sia in grado di agire in completa autonomia. L’incompleto sviluppo del minore in termini di autonomia e consapevolezza di sé, poiché assunto spesso in maniera acritica e senza concedere alcuna gradualità al processo di maturazione di competenze specifiche, giustifica pienamente l’autorità del genitore di fronte al figlio.

Sino a che punto le competenze che il minore sviluppa nell’ambito della propria personale esperienza medica devono soccombere di fronte alla più matura prospettiva dell’adulto?Le sempre maggiori innovazioni in ambito terapeutico non possono che spingerci a riflettere sulle numerose implicazioni morali legate non solo alle scelte compiute ma alla possibilità stessa di compiere quelle scelte.

Estendere l’attenzione dalla liceità delle motivazioni alla legittimità della decisione stessa è forse un modo per avviare un processo di riflessione più completo sui problemi morali legati al rapporto genitori-figli in ambito bioetico che possa portare a risposte più esaurienti e meno sbrigative.

Pubblicato originariamente in: CIRSDIG Working Paper, quad. n. 37, pp.21-24 (anno 2008)

[1]Il termine genitore è utilizzato nella sua accezione più ampia, non nel senso meramente biologico ma inteso come colui che si assume la responsabilità dell’educazione e della crescita di un essere umano, non solo tramite l’atto sessuale della riproduzione, ma tramite l’assenso ad un processo riproduttivo (in caso di fecondazione artificiale, anche eterologa) o tramite l’assenso al prendersi cura di un bambino messo al mondo da altri (in caso di adozione).

[2] Si veda http://www.corriere.it/esteri/08_marzo_10/down_bimbi_chirugia_4602f812-eecb-11dc-bfb4-0003ba99c667.shtml , http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=247219 , http://www.repubblica.it/2008/03/sezioni/esteri/down-chirurgia-plastica/down-chirurgia-plastica/down-chirurgia-plastica.html

[3] Si veda www.opheliablueeyes.com

[4] Si veda http://news.bbc.co.uk/1/hi/health/216479.stm

[5] E’ doveroso specificare che la polemica, e così la nostra riflessione, si è concentrata solo sulla legittimità delle motivazioni addotte per giustificare le scelte che di fatto i genitori hanno effettuato. L’analisi prende in considerazione il solo “punto di vista dei genitori” e delle loro motivazioni senza affrontare lo spinoso tema della legittimità della scelta in sè.

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