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Intersessualità e determinazione del sesso. Chi decide?

Intersessualità e determinazione del sesso. Chi decide?

Qualche giorno fa è stata data notizia di un’operazione definita un grande successo nell’ambito della chirugia. Un bambino di due anni con genitali femminili esterni ma corredo cromosomico maschile è stato operato per “conformare” questi ultimi al sesso genetico del bambino.

Possiamo definire davvero questo intervento come una vittoria?

Se da un punto di vista strettamente medico, la possibilità di ricostruire gli organi genitali maschili a partire da quelli femminili è senza dubbio da accogliere come l’incoraggiante segnale di una chirurgia sempre più capace di intervenire in sedi anche molto complesse e delicate, cosa possiamo dire di questo intervento da un punto di vista strettamente bioetico?

Cominciamo innanzitutto col dire che la situazione che si è configurata di fronte ai medici è quella che viene definita genericamente come “disturbo della determinazione del sesso”.Cosa significa? Significa che il neonato presenta caratteri sessuali che sfuggono alla tradizionale definizione binaria dei sessi, manifestando una compresenza di caratteri sessuali maschili e femminili. Questa condizione, definita anche intersessualità, viene considerata una condizione patologica su cui è necessario intervenire chirurgicamente per ripristinare “la distinzione naturale tra i sessi”, ossia una conformazione fisica che, senza alcuna ambiguità, sia riconoscibile come maschile o femminile.

La prima domanda da porsi è se l’intersessualità sia veramente una condizione patologica e, dunque, intrinsecamente bisognosa di correzione. La risposta, visto che si parla di questa condizione come di un disturbo della determinazione del sesso, sembrerebbe scontata ma in realtà non lo è affatto. Siamo abituati a pensare che la biologia ci garantisca un sistema binario in cui la presenza o l’assenza del cromosoma Y dia come esito la nascita di un individuo maschile o di uno femminile, ma la realtà biologica non è così manichea e il dimorfismo sessuale (ossia la divisione in due sessi secondo due differenti morfologie fisiche) è una semplificazione culturale di qualcosa che in realtà è molto più variabile e porta a una multiformità di esiti.

Proprio questa infinita variabilità biologica, assieme alle infinite possibilità a cui la costruzione dell’identità soggettiva può portare, ci impongono di soffermarci sulle conseguenze future di un intervento così importante per stabilire quanto possa essere legittimo affidarne la titolarità della scelta a soggetti che non siano i diretti interessati (siano essi i genitori e/o i medici).

È moralmente lecito intervenire precocemente sui corpi di persone minori per conformarli a una norma che è più una costruzione culturale che non una realtà biologica effettiva? Sino a che punto possiamo pensare di decidere un aspetto così importante dell’esistenza di una persona senza pensare di includerla in quella che, di fatto, è la costruzione della sua stessa identità?

A partire dal 1950 uno dei metodi per l’attribuzione del sesso agli individui intersessuali era rappresentato dall’intervento chirurgico tempestivo accompagnato ad un’adeguata educazione conforme al sesso assegnato. Il trattamento non era vincolato tanto a considerazioni in merito alla sessualità prevalente del paziente ma semplicemente alla maggiore praticabilità dell’intervento. L’idea di fondo era che l’identità di genere (o sesso psicologico) fosse completamente plasmabile entro i due anni e mezzo di età e che l’intervento chirurgico precoce, accompagnato da un’educazione sessualmente orientata, potessero risolvere ogni problema di ambiguità. La presunta completa malleabilità dell’identità di genere lasciava supporre di poter scegliere il sesso dei bambini sulla base di un criterio puramente pragmatico: essendo molto complessa la ricostruzione dei genitali maschili funzionanti si preferiva l’assegnazione del sesso femminile accompagnata da eventuali interventi chirurgici di natura demolitiva.

Il tempo ha dimostrato la totale inapplicabilità di simili interventi: numerosi individui “trattati”, una volta raggiunta consapevolezza di sé, non si riconoscevano nel sesso femminile scelto per loro da altri. La costruzione dell’identità di genere è un fenomeno complesso che, lungi dal poter essere stabilito e orientato arbitrariamente, non può prescindere dall’individuo stesso. Se contiamo poi che dall’appartenenza biologica a un determinato sesso non consegue automaticamente una percezione di sé conforme al dato biologico (è il caso dei transgender), la criticabilità di intervenire e decidere per conto di altri su un processo così delicato e complesso con interventi corporei irreversibili emerge in tutta la sua evidenza. È proprio questa complessità, assieme all’ imprescindibile centralità del soggetto nei processi di costruzione dell’identità personale, ad invalidare le possibilità di successo di interventi chirurgici precoci che, pur essendo attualmente orientati da criteri differenti da quello pragmatico (nel caso citato è stato il sesso cromosomico a orientare la scelta), non possono garantire una sicura riuscita.

Uno degli aspetti più critici degli interventi precoci di determinazione chirurgica del sesso, come quello del caso di cronaca citato, è proprio la totale irrilevanza della prospettiva del minore e la sua completa esclusione dal processo decisionale in merito ad interventi di cui sarà l’unico a subire le conseguenze. Laddove non siano presenti ulteriori motivazioni di natura strettamente terapeutica che mostrino il carattere dell’urgenza, un intervento chirurgico volto alla modificazione dei genitali e motivato dalla esclusiva esigenza di assegnare al soggetto una identità precisa si presenta come un intervento completamente arbitrario. I numerosi rischi di compromettere la vita futura dell’individuo operato e la compromissione dell’integrità corporea per finalità più culturali (la binarizzazione del genere, appunto) che propriamente mediche, porta queste pratiche a non essere affatto dissimili dalle pratiche tribali di mutilazione dei genitali femminili e maschili[1] .

A ben vedere sia la tipologia di intervento -la modificazione dei genitali- che le finalità -la costruzione di una identità sessuale conforme alla tradizione e la conseguente inclusione sociale- rendono sorprendentemente simili pratiche che solo all’apparenza sono lontane. Neppure la presunta tutela dell’interesse del minore in termini di inclusione sociale è una giustificazione sufficiente a rendere accettabili questi interventi a fronte delle pesanti conseguenze sia fisiche che psicologiche che possono comportare.

Quanto ai danni psicologici che crescere con una cosiddetta sessualità ambigua potrebbe comportare, l’origine dei danni, ossia la mancata conformazione ad una norma culturale, ci dice molto sull’urgenza di modificare il paradigma culturale che porta a incasellare ciascun individuo in identità sessuali culturalmente orientate più che sull’urgenza di intervenire sui corpi per soddisfare questa esigenza.

Per questo motivo numerose sono le linee guida che, per i casi di intersessualità, invitano alla cautela nei confronti di scelte così importanti e ribadiscono la necessità dell’adozione di criteri che non siano completamente arbitrari ma che facciano specifico riferimento al diretto interessato. Il forte rischio di pregiudicare la vita futura dell’individuo coinvolto rende necessaria la posticipazione di eventuali interventi chirurgici “correttivi” a un momento in cui possa egli stesso, in prima persona, esprimersi e decidere SE e a quali di questi ricorrere per costruire la propria identità.

La titolarità della scelta su questo genere di interventi, in definitiva, non può che essere esclusivamente del diretto interessato. Ai genitori, ai medici e alla società tutta spetta, invece, l’arduo compito di fornire a ciascuno gli strumenti per compiere scelte serene e consapevoli e garantire contemporaneamente le condizioni ottimali per una armonica crescita individuale, rispettosa delle inclinazioni personali e, in definitiva, delle scelte di vita personali a prescindere da quali esse saranno.

[1] A questo proposito è molto interessante la posizione espressa dal Parlamento Europeo nella risoluzione 1952 intitolata Children’s right to physical integrity” che, appunto, equipara gli interventi precoci in caso di intersessualità alle mutilazioni genitali proprio perché non caratterizzati dall’urgenza medica e profondamente lesivi non solo dell’integrità fisica ma anche del diritto di ciascuno all’autodeterminazione.

 

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